La notte prima di un esame è la stessa per tutti. Anzi, ad essere lo stesso è il concetto di esame, mentre le ore prima sono uniche ed ineguagliabili per ciascuno di noi. Domenica 6 febbraio è stata la mia notte prima di un esame; un esame durato una settimana intera. Prima drammaturgia scritta da me e primo monologo in scena. Un esame con il sapore di inizio. Il mio spettacolo Passi, diretto da Gianmarco Busetto ha debuttato nella settimana del ricordo, quella del 10 febbraio, giorno in cui nel 1947 a Parigi si è dato inizio all’Esodo Istriano Giuliano Fiumano Dalmata.
In quei giorni ho vissuto l’anteprima al Teatro Cinema di Robegano e il debutto proprio il 10 febbraio al Teatro del Parco di Mestre, per il progetto Youtheater, incontrando prima i ragazzi delle scuole alla mattina e poi il resto del pubblico alla sera. Una giornata densa di emozioni e ricca di piccole e preziose consapevolezze.
Ho compreso che parlare dell’Esodo non è per nulla semplice. Nella mente ho ancora le parole di un abitante di Gorizia durante le mie ricerche, mi disse “Qui dell’esodo non si parla. C’è ancora troppo dolore”. E allora come si fa ad incontrare quel dolore, a riconoscerlo, a rispettarlo? Come si fa attraverso l’arte ad accendere una luce sui fatti, le emozioni e i ricordi di quella grande frattura? Credo che la risposta si trovi nell’amore: verso le storie delle persone, le vite vissute a metà in quegli anni così confusi.
Così, con l’amore che ho per i ricordi e i legami, ho raccontato Passi, l’impresa di Abdon Pamich, il marciatore Italiano Campione Olimpico a Tokyo 1964 nella 50 Km. Una storia di sport, di adolescenza, di partenze, cammini e speranza. E mentre raccontavo questa storia tra le righe ho visto la mia. E forse quella di tanti altri che in un punto della propria vita si trovano a cambiare. A ricominciare. I motivi sono i più disparati e certamente non paragonabili ma ognuno di noi ha vissuto un “esodo” nella vita (o forse lo vivrà), un qualcosa che lo frattura improvvisamente, che lo catapulta nella pelle di un altro, a subire la “muta di un serpente” spesso non voluta.
Capita negli eventi storici imponenti, ingombranti, che ti marchiano a vita, e in quelli piccoli, insignificanti dall’esterno ma che lasciano segni invisibili dentro. Passi parte dalla Storia per arrivare alle storie. A quelle con la “s” minuscola. A quei percorsi che sanno di casa, di cucine che profumano di minestroni e paste al sugo. Alle cantine che sanno di muffa e salami. Ho cercato che tutto fosse un’istantanea, una cartolina, come quella che dà il via allo spettacolo.
Ho lasciato che fosse la curiosità a guidarmi nel racconto e ho tenuto in cuore quella curiosità durante tutta la settimana del debutto. Perché, secondo me, siamo venuti al mondo per sentire, per non perderci nemmeno una vibrazione del nostro cuore. In quei giorni ne ho sentite tante, fatte di sguardi, di parole e di sostegno. Di amici nascosti tra il pubblico, di nuovi incontri con gli occhi lucidi, di confronti. Ma soprattutto di crescita, perché il palcoscenico è una strada che si trasforma ogni giorno, e non è mai la stessa. E nel calpestarlo mi sono sentito cambiare: quando le “lucine” del buon Marco Duse si sono abbassate, non ho sentito un traguardo dentro di me, ma un’altra istantanea piena d’amore da inserire in un album appena iniziato.
M.